Di Fabio Massa
Mi ha molto colpito l’intervista del Corriere all’europarlamentare Pd Pierfrancesco Maran. Nella quale dice varie cose, ma soprattutto che bisognerebbe fare una sorta di “contrattazione locale” per i lavoratori, un salario minimo milanese. I sindacati gli hanno risposto picche con una unità che non si vedeva da tempo. Allora ho alzato la cornetta e l’ho chiamato, per capire che cosa ne pensasse. Lui ci ha scherzato su, dicendo che è un esperto di unità sindacale. Poi però è rimasto sul punto. Che merita riflessione. Inutile girarci intorno: Maran riporta all’attualità, riviste, le vecchie gabbie salariali. Non allo stesso modo, perché lui parla di certificazione e non di legge, ma ad ogni modo è una proposta su cui ragionare. Perché le gabbie salariali oggi sono viste come il fumo negli occhi dai sindacati. Appena ne sentono l’odore, attaccano. Ma basterebbe studiare un po’ di storia per sapere che le prime gabbie furono firmate dalla Cgil, e fu la Cgil poi a combattere per abolirle, definitivamente, nel 1971. Perché dagli anni Settanta le gabbie per i sindacati vogliono dire “spaccare il Paese”. Su questa cosa però dobbiamo dirci qualcosa: perché il Paese è già spaccato, e non poco. Perché un dipendente pubblico a Milano non riesce a vivere per un costo della vita che su base cittadina è esploso. E visto che non si può contenere il costo, perché non si possono imporre limitazioni agli affitti, né ai ristoranti, né ai supermercati, si può agire solo sullo stipendio. Perché un neolaureato, a Milano, non guadagna abbastanza nelle aziende che qui potrebbero garantirgli una carriera. E allora: perché no alle gabbie? In fondo, nessuno leva niente a nessuno. Non si parla di ridurre gli stipendi al sud, ma di aumentarli al nord. Infatti, il mondo imprenditoriale e i commercianti, o tacciono, o sono contrari. Quel che non si capisce è perché siano contrari i rappresentanti dei lavoratori.