Che cosa ci insegna Albertini? La storia ormai la sapete tutti: l’hanno corteggiato perché fosse lo sfidante di Beppe Sala. Ha detto prima no perché i leader di partito erano divisi. E poi ha ridetto no perché già da prima con sua moglie aveva deciso che non avrebbe corso. Dunque: che cosa ci insegna Albertini? Che il problema non è il suo no, ma il fatto che se lui dice no non ci sono altri cinque che vorrebbero il suo posto. Del resto: perché mai uno dovrebbe andare a ricoprire il posto da sindaco, a 115mila euro l’anno (fate conto che un dirigente comunale anonimo e sconosciuto ne prende anche 150mila senza grosso sforzo), con la quasi certezza di beccarsi almeno un avviso di garanzia (non si nega a nessuno) e la sicurezza assoluta di non poter vivere più un giorno di vita privata nei cinque anni a venire? La politica non attira più nessuno, laddove è servizio. Attira laddove è rappresentanza muta, in parlamenti afoni o in consigli comunali che infatti progressivamente si svuotano di competenze. Guardate il dibattito politico in città, quanto è azzerato. Solo semplice pornografia delle opere pubbliche e degli interventi, tutto è bello verde green sostenibile. Guardate il dibattito politico sui diritti in città: destra becera a sfavore a prescindere, sinistra becera a favore a prescindere. E il merito? E il dissenso? Non ce ne è. Monoliti che battono uno contro l’altro come sassi nelle mani di una scimmia. Il dibattito si è azzerato perché la politica è diventata una cosa per pazzi, e di pazzi in giro ce ne è pochi, davvero. Non c’è una ragione logica perché uno debba fare il sindaco, non una sola. Non ti stimano di più (rubi sempre), non vivi meglio, probabilmente ti diranno che non fai vivere neppure meglio gli altri. E allora, perché farlo? Alla fine questa domanda è talmente valida che via Albertini un altro che ci stia è difficile trovarlo.

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