Oggi parliamo del lavoro. È chiaro che lo smartworking, che verrà reiterato e con  tutta probabilità confermato come vera novità di questa nostra nuova normalità, cambia tutto.

Lo schema dell’orario di lavoro, dentro alle 9 e fuori alle 18, con un’ora di pausa, ha finito di esistere. È una grande opportunità, perché permette di cambiare anche i tempi della città. Un cambiamento che oggi è l’unica risorsa per garantire il distanziamento e chissà, forse anche un passo avanti per riuscire a ridurre traffico e inquinamento. Però è anche un rischio. Perché lo smartworking, per sua stessa natura, implica l’assenza di orari e dunque la presenza di un unico indicatore di produttività: gli obiettivi raggiunti. Inutile dire che in astratto è un passo avanti, ma nel concreto pone degli interrogativi. In un lavoro d’ufficio non tutte le pratiche sono uguali. Come si fa a conteggiarle? E la complessità? Insomma, c’è da ripensare un sistema.

A me piacerebbe che la politica si ponesse questi problemi, e anche il sindacato. Rifiutare lo smartworking è un po’ come diceva Bersani dell’acqua: non si può assolutamente fermare con le mani.

Il solo provarci è cosa da folli.

fabio.massa@affaritaliani.it

 

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