Piccola nota biografica. A settembre saranno vent’anni che vengo pagato per esercitare – i pezzi per il giornalino della scuola non contano – questo mestieraccio di giornalista. Dalla maturità ad oggi ne ho viste un po’ e l’auspicio è di vederne ancora molte. Dico questo perché all’interno di questi vent’anni ho trascorso anche qualche mese, poco più di un anno, all’interno di una pubblica amministrazione come capo di gabinetto (peraltro di un politico a mio parere poco illuminato che mi fece scappare a gambe levate, ma questo è un altro discorso). Inizialmente, con la foga dell’inesperto di pubblica amministrazione, valutavo tutte le attenzioni con le quali venivano scritti gli atti come perdite di tempo rispetto alla via maestra che era quella del fare. Fare di più, scrivere di meno. Poi, pian piano, ho capito. Anzi, mi hanno fatto capire. Ci ha pensato un dirigente, il mio amico Giancarlo Volpe, a spiegarmi che gli atti vanno scritti bene per vari motivi. Un motivo, che di certo non è l’ultimo e forse è anzi il primo, è che bisogna evitare di commettere illeciti. Tradotto: bisogna pararsi il culo davanti alla legge. Perché in Italia la “legge” è sempre in agguato, anche quando di dolo non ce ne è affatto. Ma il secondo motivo, che poi è quello vero, funzionale, è che gli atti vanno scritti bene perché il cittadino e le imprese devono sapere che cosa fare. E quindi tutto deve essere scritto in modo univoco, anche con tutte le minuzie del caso. Meglio un atto noioso che incompleto. Va scritto e rivisto e ricorretto finché non “gira” tutto, senza imperfezioni. E se c’è da ricorrere alle spiegazioni aggiuntive, bisogna vivere questa fase come una riparazione di un errore, da non commettere più. L’atto bello, fatto bene, è quello che esce perfetto dall’inizio alla fine. Inattaccabile anche nelle situazioni limite. Segnatevi questa frase: in Regione Lombardia faranno un monumento a Luigi Cajazzo, direttore generale sanità, ora della fine di questo casino. Non ci fosse stato lui a scrivere bene certe delibere, oggi la tempesta giudiziaria sarebbe molto più incombente. Attenzione a non confondere, perché qui non si parla del contenuto, ma di come viene esposto. E il buon tecnico deve chiedere e pretendere dal politico la chiarezza sui suoi intenti. Rem tene, verba sequentur, mi dicevano a liceo. Domina l’argomento che vuoi descrivere e le parole per farlo verranno da sé. Tutto questo racconto per dire che se il governo deve ricorrere continuamente a chiarimenti, a integrazioni, a spiegare che cosa è un congiunto, forse possono esserci due problemi: poca chiarezza di idee, e gente che scrive gli atti con i piedi. Se le problematiche dovessero sovrapporsi, iniziamo a metterci le mani nei capelli (ormai lunghi peraltro, vista l’assenza cronica di parrucchieri).

fabio.massa@affaritaliani.it

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