La pubblicazione della classifica che vede Milano prima città per qualità della vita induce a fare una riflessione non tanto sull’attendibilità della classifica. Che, voglio dirlo subito, lascia il tempo che trova, un po’ come quelle che classificano la felicità degli italiani, che per definizione sono tanto felici ma anche tanto frignoni. Ma lasciamo stare tutto questo. Ammettiamo ma non concediamo che Milano sia effettivamente la città dove si vive meglio in Italia. Da questo discende una grande responsabilità. Perché essere classe dirigente non ha nessun senso se non si dirige. Il problema è che Milano si vanta. Milano si gloria. Si specchia nella propria grandezza, e si fa odiare. Invece dovrebbe dare l’esempio in modo umile. Devo dire che dopo dieci anni a menarla con il Modello Milano, anche il Pd ha capito – con merito – che Milano non può essere un modello, ma al massimo una esperienza da condividere. Sulla capitale morale va cambiata completamente la narrazione: non dobbiamo essere un modello. Ma va anche cambiata la sostanza: non dobbiamo farci più i cazzi nostri ma viceversa dobbiamo occuparci dei problemi degli altri, partendo dai territori lombardi che fanno più fatica, senza andare lontano, ma ragionando per cerchi concentrici di problemi da risolvere. Qualche esempio? I trasporti locali fuori dal territorio servito da ATM, la gestione dei rifiuti, la fornitura dei servizi di digitalizzazione. Insomma, tutto quello per cui è all’avanguardia Milano ma che, senza andare a Caltanissetta, è cosa sconosciuta ad appena 30 chilometri dalla Madonnina.

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