C’era una volta un Paese che voleva gente laureata. Gggente, con tre g. Si sta accendendo, sui giornali, un po’ a scoppio ritardato, a dirla tutta, la vicenda che riguarda la Statale di Milano, dove il rettore Gianluca Vago, l’uomo che avrebbe voluto essere candidato sindaco dal Movimento 5 Stelle, ha deciso di istituire il numero chiuso anche per le facoltà umanistiche. Apriti cielo! Premetto: di Vago mi piace ben poco. E mi piace ben poco il modo in cui si è rapportato con la politica, negli ultimi anni. Detto questo, vado controcorrente e penso che abbia fatto un gran bene a “chiudere” (tra virgolette) le facoltà umanistiche. C’è un concetto di base che ci dobbiamo mettere in testa: non si va all’università per avere un pezzo di carta, ma per acquisire una competenza. Ho fatto Lettere, e guardacaso in Statale, e so di che cosa sto parlando. La principale competenza, che può anche essere preziosa, che si acquisisce per una parte degli studenti della Statale è la mappa dei migliori aperitivi di via Festa del Perdono e dintorni. Un cazzeggio generalizzato e infastidente, un affollamento inutile di strutture scolastiche che dovrebbero essere dedicate a chi invece ha davvero voglia di studiare. E si badi bene: il numero chiuso non favorisce i ricchi, come qualche comunistello d’accatto, reduce dai livori del ’68 vorrebbe farci credere. Il numero chiuso favorisce chi invece vuole studiare davvero, e sono generalmente quelli che non hanno tempo da perdere perché non hanno genitori con soldi da buttare. Il numero chiuso garantisce maggiore qualità finale e maggior capacità di segmentare e quindi trovare lavoro. Ma soprattutto il numero chiuso è meritocrazia. A quando il numero chiuso anche per l’accesso agli ordini professionali e in particolare all’ordine dei giornalisti?

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