C’era una volta un Paese che aveva stile, e onore. Entrambi, almeno per la mia modesta opinione, non sono orpelli retorici. Ma sono vere e proprie parti essenziali dell’agire. Adesso, parliamo di Atm, l’azienda nella quale si è alla vigilia di un cambio epocale. Bruno Rota, il presidente e direttore generale, se ne va. Se ne va da presidente perché ormai è arrivato al limite dei mandati, e se ne va da direttore generale dopo il pasticcio sulla vicenda M5, che non sto qui a spiegare. Comunque, storia finita in Atm. L’eredità di Rota, a livello di conti, è una buona eredità. Conti in ordine e tutto il resto. E va bene così. Quello che non va bene è che Rota ha ingaggiato una battaglia con il suo azionista, che poi è il Comune di Milano, che poi siamo tutti noi, per rimanere al suo posto fino all’ultimo giorno. In questo c’è un problema di stile. Se il tuo azionista ti leva la fiducia e ti chiede formalmente di andare via, l’onore dovrebbe suggerirti di spostarti, pur protestando ma sempre dentro i limiti dell’urbano. Invece no, Rota sbraita, urla, si incavola, accusa un assessore della giunta Sala, accusa il sindaco stesso, di fatto non vanifica i conti perché i numeri sono immutabili, ma vanifica l’immagine di uomo corretto oltre che retto. Costruisce la narrazione dell’uomo solo al comando contro i soci cattivi che vogliono la corruzione eterna. Peccato che quello che Rota non ha capito oggi, e viene il dubbio non abbia capito negli ultimi anni, è che non è un uomo solo al comando. Ma un dipendente della collettività. E se i rappresentanti eletti dalla collettività decidono che non è più utile, il modo migliore è farsi dignitosamente da parte.

Print Friendly, PDF & Email