C’era una volta un Paese che insultava per evitare di dover rispondere. Mi spiego. Se voglio ottenere la risposta su un tema serio, serissimo, da qualcuno, evito di aggredirlo con una domanda cafona, brutale. Molto meglio porre la questione in modo semplice e diretto, senza insultare. Se poi la risposta non mi piace perché l’interlocutore fa l’evasivo, allora bisogna andare più decisi, ma comunque non scendere nella maleducazione. Non per una questione di finezza di modi, o di educazione, ma completamente utilitaristica. Se insulti qualcuno, semplicemente gli dai il destro di non rispondere alla domanda per attaccarsi all’insulto. Insomma, consenti a qualcuno di guardare il dito e non la luna. E quando si parla di questioni serie, come quella del rischio terrorismo e dell’Islam, questo non può e non deve essere consentito. Quindi, veniamo a noi. Ieri sono successe due cose. La prima riguarda Sumaya Abdel Qader. Ancora lei, la consigliera democratica eletta a Palazzo Marino. Un giornale, la Verità, le dedica un articolo di prima pagina che va dritto per dritto. Tutti la difendono perché il giornale di Belpietro usa toni molto decisi. Il secondo tema riguarda la moschea di Sesto San Giovanni, dove si va a votare. Il candidato di Forza Italia ha sollevato forti dubbi sulla provenienza dei soldi per finanziare la moschea, che – dice – arrivano dal Qatar. In entrambi i casi i temi sono seri e riguardano i legami della politica con l’Islam radicale. Tuttavia sono stati derubricati a scontro tra destra e sinistra. Sono stati buttati in politica, come diceva Camillo a don Peppone. Ecco, il problema è che siamo ancora fermi là. Invece di fare domande per ottenere risposte, e invece di rispondere alle domande, si fa politica sempre e ovunque.

 

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